Alle radici del relativismo

Il termine apollineo-dionisiaco fu introdotto nell’uso filosofico da Friedrich Nietzsche in “La nascita della tragedia” per indicare la componente serena, armonica, luminosa dello spirito greco espressa esemplarmente dalla figura del dio Apollo, in opposizione alla componente passionale, dolorosa, oscura espressa esemplarmente dalla figura del dio Dioniso. Ma è da Schopenhauer, di cui Nietzsche è stato profondamente influenzato al punto da dedicargli una meditazione dal tema “Schopenhauer come educatore”, e da cui prende le mosse nel suo Zarathustra per dichiarare la morte di Dio, che dobbiamo partire per chiarire la genesi degli errori storici, degli errori filologici, nonché della “mancanza capacità deduttiva” che produrranno quella lacuna all’interno della quale potrà sorgere l’esaltazione nietzschiana del dionisiaco. Schopenhauer vive nel periodo forse più intenso del pensiero tedesco e che raccoglie quella particolare eredità di segno molto complesso che potremmo genericamente indicare come panteismo. Nella sua opera ” Il mondo come volontà e rappresentazione” si coglie come sia un autore profondamente avverso ad una divinità che si realizzi nell’universo e attraverso la storia. Ritiene anzi che l’evoluzione, dal punto di vista del valore, sia di segno inverso perché non si va verso il meglio (Goethe), ma si va verso una catastrofe, perché raggiungendo l’uomo la comprensione che la ” volontà di vivere” esprime in maniera sempre più radicale nient’altro che la sua malvagità, il dolore è destinato ad accentuarsi sempre più. A questo punto Schopenhauer stesso contrappone una redenzione che si esplica, in un primo momento, della contemplazione dell’ “Idea” che sospende la tensione della “volontà di vivere” e con questo sospende il dolore. Lo sospende ma non lo annulla. Più radicale la negazione della “volontà di vivere” diventa nei gradi ulteriori di redenzione che sono: la Giustizia (negazione della pretesa del diritto naturale su ogni cosa). la Compassione (negazione della volontà di vivere in sé per sollevare la sofferenza altrui). la Negazione della volontà di vivere, da ultimo, in sé e per sé nell’ascesi come mortificazione volontaria. Schopenhauer facendo questa descrizione commette non pochi errori di prospettiva storica perché più di una volta confonde o mette un pò tutto insieme quella che è l’intuizione cristiana, il misticismo orientale, e la sua intuizione di una possibilità di negare il principio che ha posto in essere il mondo. Il problema fondamentale sotto questo profilo è quello di sottolineare che quando Schopehauer confonde la ascesi di tipo puramente negativo con l’ascesi cristiana, dimentica che, al contrario, per il cristianesimo, il significato della ascesi è essenzialmente l’Amore, dove ovviamente l’Amore è sempre Amore verso la persona e sempre nel riconoscimento della positività della persona stessa. Nietsche si rende conto di questo, di questo errore schopenhaueriano, ed è curioso perchè Nietsche è l’autore dell’Anticristo, l’autore delle pagine più violentemente anticristiane che siano state scritte in epoca moderna. L’autore che non dice “Dio non esiste”, ma dice “Dio è morto” e noi siamo i suoi assassini. (La gaia scienza – Passo 125). Quanto finora detto è evidente nel prologo del “Così parlò Zarathustra”, prologo nel quale è contenuto quasi tutto il significato dell’opera che poi viene di seguito, dove Nietsche che si identifica almeno in questo momento con Zarathustra che scende dalla montagna, incontra un vecchio, che, secondo interpreti molto autorevoli su questo versante, sarebbe Schopenhauer, e il loro dialogo è appunto, sul tema, dell’ascesi poc’anzi accennato. Zarathustra che ha meditato per lunghi anni al cospetto del sole e che si è riempito l’anima di sole e di gioia vuole scendere verso gli uomini per portare il dono: “Guarda! Io sono sazio della mia sapienza, come l’ape del miele di cui ha fatto soverchia provvista; io ho bisogno di mani che si stendano per coglierla”. Ma il vecchio asceta sconsiglia Zarathustra: E il vecchio così parlò a Zarathustra: “Non mi sei straniero o viaggiatore! Molti anni or sono mi passasti dinanzi. Ti chiamavi Zarathustra, ma ora sei di molto mutato. Allora portavi al monte le tue ceneri; forse oggi intendi portare il tuo fuoco nelle valli? Non temi il castigo che attende gli incendiari?” In questo ” non temi il castigo dell’incendiario” si scorge il vecchio prudente, saggio, ma sopratutto amaro. ” Mutato è Zarathustra; un bambino egli è ridivenuto; un ridestato; che va a cercare fra i dormienti?” Il vecchio parla e sconsiglia sempre: sei un risvegliato, hai mutato pensiero, hai mutato aspetto, sei diventato come un fanciullo, perché vuoi andare dai dormienti? “Come in mezzo al mare tu vivevi nella solitudine; e il mare ti cullava…Ohimé, tu vuoi nuovamente trascinare da te stesso il tuo corpo?” Zarathustra risponde in modo secco e devastante rispetto a tutti questi inviti alla prudenza: “Io amo gli uomini”. E’ quello che Schopenhauer non ha fatto. Ma il vecchio (Shopenhauer) gira la risposta a suo vantaggio: “Perché -disse il santo-cercai io pure il bosco e il deserto? Non forse perché ancor io amai troppo gli uomini?” “Or ama Dio; gli uomini più non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta. L’amore per gli uomini mi ucciderebbe”. E Zarathustra, dopo alcuni passi, abbandonando il vecchio… “Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò nel suo cuore: ” Sarebbe mai possibile! Questo vecchio santo nella sua foresta non ha saputo ancora che “Dio è morto?” E qui allora inizia la radicale separazione di Nietzsche da Schopenhauer, che si esprimerà nel “Superuomo”.

Ora, è in questa atmosfera, dove questa influenza è ancora presente che ci è necessario riandare per comprendere il contesto di tragicità dell’esistenza in cui si situano le considerazioni sul dionisiaco espresse in “La nascita della tragedia” (che è del 1872, quindi anteriori allo “Zarathustra” che è del 1883-85) Sappiamo che Schopenhauer gli ha insegnato che la volontà è una forza oscura e cieca interessata solo alla conoscenza che portando a constatare l’insensatezza della vita, che si interessa solo alla sopravvivenza della specie disinteressandosi del singolo individuo, genera sofferenza, e quindi c’è questo disegno tragico e perverso della volontà stessa. Per giungere a tanto c’è un momento in cui la Volontà si obbiettiva in Idea, ed è forse l’Idea platonica, con una grande differenza però: che l’Idea platonica viene dalla Luce ed è Luce mentre l’Idea schopenhaueriana viene dal profondo, dall’oscuro, dalla tenebra, dall’abisso.. C’è un cambiamento di senso di 180 gradi! Resta però costante il fatto di intendere l’Idea come Archetipo, principio informale che può essere contemplato solo attraverso un’intuizione partecipativa, un’intuizione cioè che consenta al puro soggetto della conoscenza, cioè al soggetto che si è spogliato del progetto egoistico, di contemplare la bellezza senza nessuna brama di possesso, di contemplare la bellezza, quindi, tale quale è. Come già sottolineato, la fase in cui Nietsche è stato più che mai schopenhaueriano, fedelmente schopenhaueriano, è quando scrisse “La nascita della tragedia”. Un testo che è diventato famosissimo perchè al di là di una concezione teoricamente interessante, Nietzsche va a proporre una soluzione per uno dei più grandi e irresoluti, forse irresolubili, interrogativi di natura letteraria; e cioè qual è stata l’origine nel mondo greco della tragedia. Allora qui ci troviamo di fronte ad una interpretazione teorica più che filologica (metafisica per altri), che naturalmente ha dominato l’interesse ed ha attirato l’attenzione non solo dei filosofi, ma anche dei filologi, degli storici della letteratura, e degli storici in generale del mondo antico. Dal punto di vista storico e letterario la tesi nietzschiana non è né sostenuta, né suffragata da prove adeguate; resta il fatto che è teoricamente affascinante. Cosa dice l’autore? Sostiene che il mondo della tragedia nasce essenzialmente come manifestazione della tragicità dionisiaca dell’esistenza. In questo libro Nietsche ricorda il celebre incontro, descritto anche da Aristotele nel suo “Protrettico”, del famoso Re Mida con il Sileno. Il Sileno è una figura del mito antico dove le forme umane e le forme animali, in particolare qui la forma del cavallo, si mescolano indistintamente. Qui il Sileno, interrogato da Re Mida che gli domanda cosa sia la miglior cosa per l’uomo, risponde: “Il demone taceva rigido e immobile, finchè, costretto dal re proruppe in una risata stridula con queste parole:”Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e dell’ansia, perchè mi costringi a dirti quello che non potrà esserti di nessun giovamento sentire? La cosa per te migliore ti è del tutto impossibile raggiungerla: non esser nato, non essere, non esser nulla. La seconda cosa migliore, dopo questa irraggiungibile, è di morire subito…” Si può capire da ciò come sia tremenda e pessimistica la visione filosofica di Nietsche. Quindi, quando si dice Nietsche ottimista contro Schopenhauer pessimista, si dicono delle banalità. Schopenhauer non è pessimista, è altro, se si vuole è peggio, però non è pessimista;c’è cioè in lui una radicalità filosofica e una negazione, che non ha a che vedere con l’ottimismo/pessimismo, che sono invece caratterizzazioni di tipo psicologico. Cionondimeno, però, dire che Nietzsche è ottimista perchè attraverso la volontà vuole giungere ad affermare il valore dell’esistenza, sarebbe, analogamente, una banalità. Non è ottimismo il suo, ma pessimismo; e si pensi se la frase citata come riferimento essenziale del suo testo “La nascita sella tragedia”, consenta qualche ottimismo. C’è piuttosto questa radicale, profonda accettazione della tragicità dell’esistere e si accorge Nietsche schopenhaueriano che l’esistenza dell’uomo (“figlia del caso”, “stirpe misera ed effimera”, “figlia del caso e dell’ansia”: come a dire che è impossibile superare l’ansietà della vita ma che è anche impossibile trovare una ragione della nostra esistenza) va accettata. Va accettata questa situazione che proviene dal profondo di pulsioni e di forze, che nessuna ragione può risciarare. Ma perchè accettarla? Perchè non cercare di raggiungere almeno la seconda miglior cosa? Morire subito cioè, visto che la prima, non essere mai nati, non è possibile. No, dice Nietzsche, bisogna accattare questa potenza che partorisce questo mondo, perchè nel partorire questo mondo lo pone anche in una struttura di bellezza che contemplata può far sì che l’uomo accetti e ami questo esistere per quanto insensato, per quanto figlio del caso, per quanto figlio dell’ansietà. Ed è questa, se vogliamo, l’Idea di Schopenhauer; l’Idea di Schopenhauer contemplata come bellezza, che non getta luce sul senso, ma che una volta contemplata come bellezza viene accettata e vi si trova pace. L’apollineo in Nietsche è la bellezza, ad esempio, del canto omerico, che trasforma in uno spettacolo degno della memoria di tutti gli uomini il combattimento tragico e sfortunato di Ettore con Achille, il disastro della sua famiglia, la caduta di Troia, quella guerra che fu sanguinosa e crudele quanto poche ve ne furono, ma che merita di essere ricordata e contemplata, perchè c’è stato chi l’ha cantata. Così nella tragedia, il personaggio che emerge, non ha nulla da insegnare, ma presenta se stesso come colui che sopporta i colpi altrimenti insopportabili del destino (si pensi per esempio ad Edipo), e che soltanto il canto di un Sofocle, riesce a tradurre in bellezza. Quindi, se vogliamo, l’apollineo, in Nietsche, non è rivelativo alla Luce e al Senso, ma semmai nasconde ciò che se fosse visto in tutta la sua terribile crudezza, renderebbe immediato, il desiderio di morire. L’apollineo riceve dunque da Nietsche una connotazione che potrebbe essere ragionevolmente giudicata…gravemente insufficente! Basti dire che Nietzsche, in “La nascita della tragedia” comprende poco, o per nulla, a mio avviso, il genio di Socrate, e dice cose errate su di lui. Dice, ad esempio, che la grandezza della tragedia, si spegne, nell’età dei Sofisti e nell’età di Socrate, perché in questo periodo prevale la riflessione rispetto alla contemplazione, il dionisiaco rispetto all’apollineo. Dionisiaco è potenza che genera e distrugge, l’apollineo è lo schermo della bellezza e del sogno. L’intellettualismo sofistico socratico ed euripideo è un tentativo di ragionare, di riflettere, di vedere concatenazioni di causa ed effetto nella dinamica dei pensieri, degli affetti e delle scelte nella sia pur lontana, in Socrate, prospettiva che attraverso un processo di tipo razionale si vada verso la Verità, intesa come il Bene, e intesa come la Virtù stessa; il fondamento della Virtù, ma anche la Virtù stessa perché dice Socrate, nel suo ottimismo intellettualistico, chi conosce il Bene non può non sceglierlo e quindi conoscere il Bene è già, di fatto, essere virtuosi. Nietzsche non comprende però Socrate perché lo riduce, come spesso è stato fatto nelle “Storie della filosofia”, alla dimensione dell’intellettualismo ottimistico, non comprendendo che Socrate è stato anche un grande Mistico. Un contemplativo e non solo un teorico. Un uomo che restava a volte lungo tempo in piedi, in silenzio, e nessuno osava disturbarlo, comprendendo che la sua mente era lontana da ciò che gli altri abitualmente vedevano. Un uomo che udiva una voce interiore che lo sollecitava a non desistere dalla sua ricerca. Nietzsche ricorda questo episodio, ma lo ricorda solo in un certo aspetto. Questo Daimon (Filemone in Jung) questo qualcosa di divino che parlava all’interno di Socrate, diceva a Socrate cosa “non” doveva fare. Direi che Nietzsche, questo non lo coglie affatto. Direi che lo interpreta assai male. Riduce Socrate, nonostante questi evidentissimi episodi di natura mistica, all’intellettualismo di cui si legge nei manuali meno significativi di Storia della filosofia, e nutre nei confronti dello stesso un’avversione terribile. Al contrario, se si volesse cogliere veramente il senso dell’apollineo in Socrate, e Nietzsche non lo fa, occorrerebbe far riferimento alla possibilità che attraverso vie tutte da scoprire e da tematizzare, l’intelletto umano possa aver rapporto con una fonte di Luce, e che questa fonte di Luce comunicasse, in qualche modo, all’intelletto, mediante dei veli, il suo fulgore. Allora questi veli diventano esattamente l’apollineo, cioè ciò che consente all’intelletto di vedere ciò che per troppo fulgore non sarebbe visibile. Quindi l’apollineo non è l’immagine, il sogno bello che “nasconde” l’altrimenti inaccettabile dell’esistenza, ma diventa quel “Velo che ri-vela” (Heidegger). Cioè diventa quello schermo che rende intravvedibile ciò che altrimenti l’occhio non sosterrebbe. Diventa quell’ombra attraverso la quale si può vedere l’altrimenti non visibile. Ed è esattamente in questo senso che avevano parlato Socrate e Platone, e prima di loro Parmenide, Protagora, Eraclito e dopo di loro anche Aristotele. Quando Platone racconta nel mito della caverna che il prigioniero uscendo dalla caverna stessa resta abbacinato dalla Luce, per cui per il troppo fulgore non discerne, dice la stessa cosa. Quando allora i suoi occhi cominceranno a vedere qualcosa? La notte, perché nella notte il fulgore degli astri notturni è immensamente inferiore a quello dell’astro diurno; allora egli comincia ad abituare gli occhi usciti fuori dalla penombra della caverna, allo splendore del mondo. E quando sorge il sole guarda la vera realtà riflessa nello stagno. Quindi nello specchio d’acqua non è appunto la realtà vera, ma la sua immagine riflessa (degli uomini, delle case, ecc.). Ma è esattamente quella immagine riflessa che consente a gli occhi, ancora ammalati e per la troppa abitudine al buio, di vedere qualcosa, un qualcosa che ha stretta relazione con la realtà, ma che realtà non è. E con esercizio lento, lungo, e non senza sofferenza, il prigioniero riuscirà, poco alla volta, ad adattare gli occhi, al punto da fissare il sole. Ma questo è il termine d’arrivo. Tutto quello che viene prima: l’immagine riflessa, la visione in momenti della notte, o comunque della penombra, son momenti di Ombra che guidano verso la Luce. Questo è l’apollineo! Questo è “veramente” l’apollineo. 

E se ne trova un riflesso, di una cosa di questo genere, esattamente nel Primo Canto del Paradiso, quando Dante dice: “perché appressando sé al suo desire, nostro intelletto si profonda tanto che dietro la memoria non può ire”. (7-9) Poiché l’intelletto ha già attraversato tutto l’Inferno, ha salito tutta la montagna del Purgatorio, ha bevuto dal fiume di Lete, il fiume della dimenticanza, “la memoria dietro non può ire”…e allora Dante invoca Apollo! Apollo come mediatore tra l’altezza dell’intuizione e la necessità di raccogliere nella memoria. Si diceva allora: invoca Apollo proprio perché risulti il mediatore tra l’altezza del dono rivelato e la possibilità di intendere ricordando. “O buono Apollo, all’ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso come dimandi a dar l’amato alloro”. (13-15) Questo è l’Apollo, questo è l’apollineo, come era già in Platone, e cioè l’Archetipo, l’immagine che media tra la troppa luce, che in Dante è indicata nelle prime parole del primo canto: “La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra e risplende”. (1-2) Lo splendore immenso, quindi, la gloria dell’Essere, e la nostra capacità di recepire, di acquisire, di far tesoro, di far patrimonio di ciò che è stato inteso ricordando. Quindi questa mediazione è chiesta ad Apollo e Apollo è allora colui che dona l’Icona (l’immagine archetipica, il simbolo). Non il sogno che vela, ma il Simbolo che svela! E svela proprio perché fa ombra, come è in Platone, come è in Socrate, come è in Mosè. Come è in Mosè che chiede di vedere il volto di Dio per potere andare al popolo al quale viene inviato, e dire chi lo ha mandato, e Dio gli risponde: “Nessuno può vedere il mio volto e rimanere vivo perciò io ti coprirò la faccia con le mie mani e ti nasconderò nel cavo della roccia (il mito della caverna). Ma questo nasconderti nel cavo della roccia non è per umiliarti, è per farti vivere! E mi lascerò vedere da te quando sarò passato, da tergo”. Cioè Mosè vede la gloria di Dio che si allontana, perché non ha potuto vederla mentre arrivava. E la stessa cosa succede ad Elia sul Carmelo. In conclusione: La tematizzazione di Nietzsche sull’apollineo è gravemente insufficente. Inoltre la sua valutazione dell’intellettualismo socratico è un’errore di carattere storico e filologico perché ridurre Socrate ad intellettualista significa francamente trascurare gran parte dei testi che presentano Socrate come mistico. La cosiddetta componente “misterica”, è evidentissima in Socrate, come evidentissima in Platone, in Parmenide, in Eraclito ed anche in Aristotele, partecipi di “viaggi iniziatici” tali, per cui un grande autore, filosofo contemporaneo di Nietzsche, Friedrich Schelling ha scritto in “Filosofia e religione”: “Anticamente, sempre, il discorso filosofico nasce dall’esperienza religiosa”. E questo è sicuramente vero. Anche se dire “esperienza religiosa” non significa affatto credere negli dei, anzi, Socrate è morto con l’accusa di empietà, proprio perché cercava il vero volto, o il vero senso, del divino, e quindi travalicava tutti quegli aspetti magico-superstiziosi che erano caratteristici dell’Atene del suo tempo. Ora, ridurre Socrate a puro intellettualismo non è corretto, come si è detto. E’ sì, vero, che comunque Nietzsche ha deliberatamente voluto porre la parola “fine” alla tradizione occidentale ( di cui Socrate faceva parte). E in questo senso lo interpreta anche Heidegger. Heideggerritiene che Nietzsche sia autore imprescindibile per chiunque vorrà ancora pensare filosoficamente, perché per l’appunto Nietzsche è l’ultimo autore nel quale la grande tensione metafisica dell’occidente viene al suo compimento e si dichiara la sua totale inadeguatezza. Vero è che Nietzsche ha voluto fare questo, e vero è che Heidegger lo interpreta in questo senso, ma… Il ma che qui si pone è di natura teoretica e anche storica. Di natura teoretica: non è vero che la metafisica sia un’espressione dell’intellettualismo. Non foss’altro ciò che si è detto fin qui può smentirlo. In effetti il pensiero metafisico nasce secondo questi autori, sia Nietzsche che Heidegger, sopratutto con Platone e con Aristotele, ma in Platone e in Aristotele non è esito intellettualistico, è semmai espressione condotta attraverso ragionamento e in dimensione intellettualistica, Dialettica nel senso originario e proprio del termine, di una esperienza che abbiamo già qualificato come Misterica. Misterico è termine che ha la stessa radice di Mistico, viene dal verbo greco Myein, che è il “chiudere, serrare” la bocca, perché non si può dire, gli occhi perché non si può vedere ( stessa radice anche di “miope”), gli orecchi perché non si può udire; perché si avvertono dimensioni e realtà che sono fuori dalla realtà del nostro intendere, quindi del nostro vedere, del nostro udire, del nostro dire e del nostro riferire. Allora è silenzio, ma un silenzio inteso come troppo sapido. E’ il mito di Icaro che muore e cade, ma non perché le ali del padre non fossero atte a levarlo in volo e liberarlo dal labirinto dell’esistenza, ma bensì perché troppo in alto la nostra capacità non regge, e troppo intensa luce distrugge la persona. Quello che abbiamo appena detto nel caso di Mosè e anche di Elia. Di natura storica: Se quanto detto poc’anzi è vero, e non solo è vero, ma documentato dai testi, il nietzschiano e poi heideggeriano rifiuto della metafisica dell’occidente come uno degli esiti dell’intellettualismo o addirittura del razionalismo, è, storicamente parlando, non documentato. A questo punto ci si trova, attraverso la lettura di Nietzsche e di Schopenhauer, e attraverso la lettura di Heidegger, quindi “non ignorandole ma attraversandole”, a dire che probabilmente nella tradizione filosofica occidentale Nietzsche voleva distruggere radicalmente perché venisse affermato il nuovo: ci sono luci che devono essere nuovamente viste, colte e interpretate. Bibliografia: Colli G.: La ragione errabonda, Adelphi, Milano 1982. Colli G.: Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 1986. Colli G.: La sapienza greca (3 volumi)Adelphi Milano 1987. Colli G.: Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1988. Heidegger M.: Nietzsche, Adelphi, Milano 1988. Heidegger M.: Lettera sull'”umanismo”, Adelphi, Milano 1995. Nietzsche F.: Umano troppo umano, Adelphi, Milano 1965. Nietzsche F.: La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1966. Nietzsche F.: Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968. Nietzsche F.: Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1970. Nietzsche F.: La gaia scienza, Mondadori, Milano 1972. Schopenhauer A.: Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1991 Nell’immagine sopra: L’AULOS, STRUMENTO SOLISTA DEDICATO A DIONISO, SUSCITA EMOZIONI FORTI, PENETRA NELL’ANIMO, SI RIVOLGE ALL’IRRAZIONALE CHE È IN CIASCUN UOMO; LA LYRA, STRUMENTO D’ACCOMPAGNAMENTO DEDICATO AD APOLLO, È PIÙ DOLCE E SOLARE RIVOLGENDOSI ALLA RAGIONE ED ALLA COSCIENZA; L’UNO È LO STRUMENTO DEL PATHOS E L’ALTRO DELL’ETHOS.

Alle radici del relativismoultima modifica: 2010-06-07T17:57:00+02:00da allan11
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