Girard e la “Spe salvi”

Dopo la lettura dei post precedenti sull’importanza del “sociale” come parte inscindibile del Desiderio, risulta particolarmente interessante questa conclusiva intervista a Girard sull’argomento che era stata l’ispirazione dalla quale eravamo partiti nell’analisi del Desiderio ad iniziare dalla sua patologia

Intervista a Réne Girard sull’Enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi”

      La «Spe salvi» insiste su un cristianesimo poco individualista e non
solo occidentale, perciò critica il progresso. Parla René Girard

      «Mi ha molto colpito l’accosta­mento nell’enciclica fra fede e
speranza, quando si sottolinea che esse vengono quasi confuse lungo la
sto­ria del messaggio cristiano. Il Papa sembra rimproverare al mondo più l’assenza
di spe­ranza che di fede, dato che la speranza ha un ruolo essenziale nella
fede». Il grande antro­pologo francese René Girard ha letto la Spe Salvi con
gli occhi del credente, oltre che con quelli dell’instancabile e­sploratore
del sacro.

      Professore, quali impres­sioni hanno accompa­gnato la sua lettura?

      «Ancora una volta, in que­st’enciclica si avverte con forza la volontà
di Bene­detto XVI di mettere l’ac­cento sulle verità fonda­mentali del
cristianesimo, oggi spesso trascurate. La speranza cristiana, ci vie­ne
detto, non è così indivi­dualistica come la nostra epoca tende a far
credere. Al contempo, affrontare il mondo sociale nell’ottica delle
ideologie mo­derne è riduttivo e fuorviante».

      In che senso lei parla di un’enciclica «socia­le »?

      «Nel senso, direi, di un ritorno alle basi socia­li fondamentali del
cristianesimo. La cristia­nità nel suo insieme è più importante di cia­scuno
di noi. Ed essa è minacciata da una fal­sa concezione del progresso. Una
minaccia diretta, in un certo senso fisica, grava sul no­stro mondo. Mi pare
che l’enciclica alluda chiaramente ai problemi posti dagli arma­menti, dall’ambiente,
dal consumo di petro­lio ».

      Nella prima parte, si rievoca l’avvento della speranza cristiana in un
mondo pagano sprovvisto di prospettive.

      «Ci viene detto molto chiaramente che gli dei del mondo antico, come
quelli romani, non potevano apportare la speranza agli uomini. Il Dio dei
cristiani è del tutto diverso. Il suo a­more e il suo interesse per gli
uomini sono co­stanti, profondi, molto più profondi della no­stra stessa
concezione della natura umana».

      L’enciclica ricorda anche le prime rappre­sentazioni di Cristo come un
filosofo. Perché, a suo parere?

      «Si trattava di uno sguardo che non prestava sufficiente attenzione
alla Passione, al dato es­senziale del cristianesimo. Quest’evento era
talmente nuovo che mancava anche il lessico per parlarne. Ma pure oggi
possiamo chiederci se non siamo ancora in cammino verso inter­pretazioni più
profonde della Passione. L’en­ciclica invita, mi pare, a una riflessione
co­stante sul fatto che Dio è più vicino a noi per­ché esiste questa
sofferenza così necessaria nel rapporto fra Dio e l’uomo».

      Una sofferenza ricordata dalle figure di san­tità citate.

      «I modelli di santità nell’enciclica sono mo­derni e provengono da
Paesi non occidentali che hanno enormemente sofferto e che non avevano una
tradizione cristiana. L’enciclica insiste dunque sull’universalità del
cristiane­simo e sul fatto che esso è vivo anche dove gli occidentali
tendono a non volgere lo sguardo. In queste regioni, il cristianesimo cresce
e rag­giunge espressioni per certi aspetti più inten­se che nell’Occidente
rigonfio di scienza e del­le sue capacità di produzione».

      «La fine di tutte le cose» di Kant viene indicata come come una pietra
miliare dei dub­bi sul progresso. La sorprende questa cita­zione?

      «Questo passaggio dell’enciclica è molto in­teressante perché
sottolinea come la filosofia moderna, se la si guarda più da vicino, è me­no
semplicista nella sua visione della moder­nità, della scienza e del
progresso di quanto spesso si dica. Anche nella filosofia, dunque, la nostra
coscienza può trovare spunti per ve­gliare di fronte ai pericoli che
attraversano il nostro tempo».

      Ma la filosofia, ad esempio quella di Marx, può diventare anche base
di ideologie dram­matiche.

      «L’enciclica ci ricorda proprio il vizio princi­pale delle utopie
moderne. Esse credono pos­sibile di poter – per così dire – completare in
modo definitivo l’umanità, ma ogni volta la realizzazione dell’utopia lascia
l’uomo nello sconforto. Oltre che deteriore, questo genere d’utopismo oggi
comincia ad apparire terri­bilmente superato, nella sua concezione
pu­ramente materialistica e senza prospettive spi­rituali della felicità
umana. Accanto a tutto ciò, il cristianesimo appare come un’apertura ver­so
l’infinito che non può venire colmata».

      E in quest’apertura infini­ta, il cristiano non può di­menticare il
Giudizio uni­versale.

      «La parte finale dell’enci­clica ci ricorda che il mo­do in cui il
cristianesimo ha concepito il destino dell’uomo resta oggi per­fettamente
valido. Vi è qui un ritorno alla tradizione ecclesiale della cristianità e
un richiamo all’ap­profondimento del cristia­nesimo attuale attraverso le
fonti originali e le virtù teologali, da opporre alle nostre piccole fedi e
speranze quotidiane. A tratti, sembra che il Papa voglia mostrare co­me per
questo mondo disilluso non sarebbe difficile volgersi verso il
cristianesimo. Mi pa­re cruciale l’insistenza dell’enciclica sul fatto che
non può esservi scoperta di strutture ca­paci di garantire la pace in modo
permanen­te. L’uomo è tale che non può liberarsi da so­lo delle fonti della
sua autodistruzione».

      La speranza cristiana è anche quella dell’u­nione fra i cristiani.

      «Sì, il ritorno all’unità è presente fra le righe co­me una missione
essenziale. La preoccupa­zione dell’unità è costante perché si
ricono­sceranno i cristiani proprio da quest’unione. Oggi non siamo
riconoscibilmente cristiani perché restiamo profondamente divisi».

Girard e la “Spe salvi”ultima modifica: 2010-06-04T00:52:00+02:00da allan11
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