L’estate sta finendooooo….

La bella stagione del multiculturalismo e relativismo è agli sgoccioli.
Sopravvissuta fino ad ora grazie all’onda lunga del “’68 pensiero” quando i
suoi cultori-fautori  riuscirono ad infiltrarsi in tutti i gangli culturali
prima europei poi americani, oggi, diventate cariatidi peggiori di quelle
che avevano sostituito, si apprestano , necessariamente, ad andare in
pensione, senza lasciare eredi, come dimostra la ricerca di Neil Gross e
Solon Simmons nell’articolo allegato.

Inoltre, questo ideologico modello culturale, ha contribuito mille volte di
più delle televisioni di Berlusconi ad instupidire la gente perchè, come
avevo sempre detto anch’io e qui è confermato, se è vero il “relativismo”
allora è stupido sprecare il proprio tempo nella “cultura alta”; tanto vale
darsi al business che “Poveri ma belli” è solo un vecchi film.
Ed è esattamente quello che in un’occhiello ribadisce questo articolo:
“Il boomerang *** Gli studi letterari e filosofici hanno perso prestigio:
oggi i giovani preferiscono business, ingegneria e diritto”

Concludo, prima di lasciarvi leggere in pace l’articolo, con una sola breve
nota
Subito nelle prime righe noterete un’appunto di Jhon Searle dove al nome di
Socrate è accostato quello di Marx.
Probabilmente l’autore doveva essere ubriaco  poichè, avendo letto
personalmente quel libro almeno quattro volte, Socrate è esaltato, ma non
certo Marx, che anzi è ritenuto all’rigine di tutto il guaio
multiculturalista e quell’accostamento è solo assurdo oltre che falso
Pietoso tentativo di salvare il proprio pargolo depositandolo sulla barca
dei destinati a salvarsi.
Peccato che sia nero, identificato e subito ributtato a mare !!  😉

 A vent’ anni dall’ uscita del bestseller «La chiusura della mente americana»,                                                                                               i progressisti ammettono che le sue tesi erano fondate
L’ autocritica dei liberal su Allan Bloom
Il multiculturalismo è un errore, torniamo ai classici

 A poco più di vent’ anni dalla pubblicazione del suo famoso libro “La chiusura
della mente americana” (tradotto in Italia da Frassinelli), una vigorosa
difesa dei classici occidentali della letteratura, della storia, della
filosofia e un’ aspra denuncia del proselitismo ideologico e del
multiculturalismo nelle università, Allan Bloom sta ottenendo una
inaspettata rivincita postuma. Nel saggio del 1987 Bloom, un conservatore
che ispirò all’ amico Saul Bellow uno dei suoi capolavori, il romanzo
Ravelstein, aveva accusato i radicali degli anni Sessanta di avere snaturato gli studi
universitari «con l’ imperativo di promuovere l’ eguaglianza, di eliminare
il razzismo, il sessismo, le guerre, e di disconoscere l’ autorità in nome
di una verità morale superiore». Il suo manifesto, a lungo un bestseller,
spaccò in due il mondo della cultura e delle università in America e in
Europa. Appoggiarono Bloom persino ex radicali alla John Searle, lamentando
che «icone come Socrate e Marx, prima ritenuti forze liberatrici, vengano
ora giudicati forze oppressive». Ma il predominio dei liberal tra i docenti
e la rivolta studentesca lo sconfissero. Prevalsero il progressismo e il
multiculturalismo, e le facoltà umanistiche cambiarono: meno classici, più
opere del Terzo Mondo, di minoranze etniche e di donne, più revisionismo
filosofico e storico. Ancora l’ anno scorso, Alan Wolfe, un politologo del
Boston College, notava che «tutti conoscono il romanzo di Chinua Achebe
sulla Nigeria post coloniale, Things Fall Apart, ma quasi nessuno conosce
Yeats, da una poesia del quale ha tratto il titolo». Ma oggi, nelle
università americane l’ ideologia è in ritirata. Lo storico Tony Judt,
docente della New York University, che si definisce «un vecchio
sinistrorso», rimprovera al multiculturalismo di avere «balcanizzato gli
studi», notando che «i ragazzi ebrei seguono corsi di storia ebraica, quelli
gay corsi di storia gay, quelli afroamericani corsi di storia
afroamericana». Troppi professori, rileva Judt, «sono ultraspecializzati e
si rifiutano di tenere i corsi più ampi di cui gli studenti hanno bisogno».
Allo stesso modo, Stanley Fish, un giurista dell’ Università internazionale
della Florida, un centrista, rinfaccia ai colleghi liberal di avere «così
politicizzato l’ insegnamento da fare il gioco dei neocon, che dipingono gli
atenei come nidi di ateismo, di relativismo, di promiscuità sessuale, se non
di antiamericanismo». Nel 2007 aveva anticipato le critiche di Judt e Fish
la titolare della cattedra di filosofia dell’ Università di Chicago, Martha
Nussbaum, una liberal che nel 1987 si era scagliata contro Allan Bloom: «Le
scienze umanistiche non sono più considerate ingredienti essenziali della
democrazia. Occorre recuperare a poco a poco i curriculum di un tempo, sia
pure integrati da quanto di buono è stato fatto per ammodernarli». Più che
l’ esame di coscienza del mondo accademico, tuttavia, sono fattori esterni e
generazionali a favorire la rivincita di Bloom. La rivoluzione culturale
degli anni Sessanta e Settanta ha intaccato l’ immagine delle università
come templi non partisan del sapere, come lamenta Fish, e ha spinto numerosi
Stati a ridurre i finanziamenti a quelle pubbliche, costringendole a
rivolgersi alle grandi imprese, che le condizionano come quelle private,
rendendole così sempre più pragmatiche e utilitariste. Studiare costa fino a
40-50 mila dollari all’ anno, osserva Alan Wolfe, e gli studenti e le loro
famiglie lo considerano un investimento che deve dare frutti a ogni costo:
si orientano sull’ ingegneria, il business, la cibernetica, «le cosiddette
scienze esatte, a cui sono estranei il progressismo e il multiculturalismo»,
accantonando la storia e la letteratura: nel 2005, si sono laureati nelle
due materie appena l’ 1,3 e l’ 1,6 per cento degli studenti rispettivamente.
Wolfe sottolinea anche che dall’ 81 a oggi l’ America ha avuto governi
repubblicani per venti anni: «Tutto ciò – conclude – spiega in parte perché
i campus siano rimasti abulici di fronte a eventi quali alla guerra in
Iraq». Sul fattore generazionale nel corpo insegnanti hanno svolto una
ricerca Neil Gross della Università della British Columbia e Solon Simmons
della Università George Mason a Washington. Hanno accertato che il 50 per
cento dei professori al di sopra dei 50 anni, di cui molti prossimi alla
pensione, sono liberal, e che il 60 per cento di quelli sotto i 36 anni sono
moderati; che si ritiene «un attivista politico» il 17,2 per cento dei primi
ma appena l’ 1,3 dei secondi; e che gli assistenti, i docenti del futuro,
non sono più in maggioranza democratici, molti sono repubblicani o senza
partito. Dichiara Gross: «Nel corpo insegnante è in corso uno spostamento
dal radicalismo al centrismo. A differenza di quella vecchia, che crebbe nel
culto del pacifismo, dei diritti civili e dell’ eguaglianza economica e
sociale, la nuova generazione è cresciuta senza ideali inebrianti, si occupa
più che altro del lavoro e della carriera». Stando a Simmons, potrebbe
contribuire al fenomeno l’ accresciuta presenza femminile: «Le donne non
sono più una sparuta minoranza, adesso sono il 40 per cento dei docenti
contro il 20 per cento del 1970. Non sono meno preparate degli uomini, ma
sono più concrete». Resta da vedere se, rivalutando Bloom, gli atenei
americani riusciranno a conciliarne il richiamo con le istanze di un Paese
non più monolitico ma multiculturale, come auspicato dalla Nussbaum, e non
cadranno in una sorta di restaurazione come desiderato da David Horowitz, un
ex marxista divenuto neocon, che ha proposto di limitare il numero dei
docenti liberal. Jackson Lears, un noto storico della Università Rutgers, è
ottimista: «Il cambiamento generazionale non si tradurrà necessariamente nel
sopravvento delle destre, semmai in un inferiore impegno politico. Potrebbe
avere un effetto positivo: meno battaglie e più collaborazione, meno
distrazioni e più rigore». Lo stesso candidato democratico alla presidenza,
Barack Obama, è sembrato caldeggiare un compromesso tra le generazioni,
osservando che le astiose elezioni del 2000 e del 2004 gli «hanno ricordato
i vecchi scontri sui campus» e che il Paese ha bisogno di unità. Per l’
America è una questione cruciale: le sue università e i suoi college a corsi
biennali sono oltre 4.100 e i loro professori oltre 675 mila. Ma il sistema
ha bisogno di riforme, un punto su cui gli anziani docenti liberal e la
nuova guardia moderata sono d’ accordo. Lo confermano Michael Olneck e Sara
Goldrick-Rab della Università del Wisconsin. Olneck ha 62 anni e sta per
ritirarsi, la Goldrick-Rab ne ha 34 e sta per succedergli. Entrambi dicono
che il sistema è troppo sbilanciato dalla parte dei ricchi e dei potenti,
che va modificato a favore dei poveri e degli umili.

Caretto Ennio

Corriere della sera di Sabato 2 Agosto 2008

L’estate sta finendooooo….ultima modifica: 2010-06-07T00:25:57+02:00da allan11
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