Il “DASEIN” intelligente

Forme fondamentali del Dasein umano

1° – Il mondo della dualità

Premessa
L’apparizione nel 1927 di “Sein und Zeit” di Heidegger e di alcuni scritti
di altri autori (Lowith e Martin Buber) che analizzavano finemente la
presenza dell’uomo nel mondo in quanto co-presenza, distolsero Binswanger
dal proposito di ripubblicare un suo importante scritto del 1922:
“Einfuhrung in die Probleme der allggemeine Psychologie” (Introduzione ai
problemi di Psicologia Generale) e lo indussero alla composizione di una
nuova opera organicamente centrata sulla fenomenologia
dell'”essere-insieme-nell’amore e nell’amicizia” e del suo polo opposto,  il
puro “essere-con” inteso nel senso del giornaliero contatto e commercio con
i propri simili, e ciò allo scopo dichiarato di indicare la possibilità di
una conoscenza del Dasein (esser-ci) quale risulta dal gioco reciproco di
quei due poli.  Così al posto di una descrizione psicologica e di una
preoccupazione metodologica (due punti di vista che avevano ispirato lo
scritto del 1922) subentravano punti di vista fenomenologici, ontologici e
antropologici.
Nacque così, nel 1942, l’opera principale e più originale di Binswanger:
“Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins” (Forme fondamentali e
conoscenza dell’esser-ci umano) [Ernst Reinhardt Verlag, Munchen – Basel,
1973]

Opera originale, abbiamo detto. Certo, l’orizzonte ontologico entro cui si
colloca la visione di Binswanger è anche qui quella heideggeriana
dell’essere-nel-mondo. Ma è in quest’oprea che Binswanger “scopre” quella
forma duale dell’amore, quella nuova struttura dell’esser-ci con cui egli
arricchise e supera la fredda visione heideggeriana della presenza umana.
Il Mitsein di Heidegger si articola in direzione antropologica nei diversi
modi di prendere-per, strutture fondamentali della vita associata;
l’essere-con diventa reciprocità, la presenza diventa presenza-a, e al di
sopra del commercio umano s’inarca, infinitamente luminoso, il cielo della
dualità amante, condensato nella più pregnante delle formule binswengeriane:
“In der Welt uber die Welt hinaus sein” (Essere nel mondo ma al di sopra del
mondo)
   Le Grundformen, che sono anche l’opera più vasta del grande psichiatra
svizzero (inutilmente “corteggiato” sia da Freud che da Jung-ndr), non sono
che la descrizione accuratissima, rigorosamente scientifica eppure mossa ed
appassionata, di questa densa formula e rappresentano nella storia del
pensiero moderno il tentativo più organico e più vivo di cogliere l’eidos di
quel modus amoris che agli occhi di Binswanger non è soltanto la forma più
alta e più “autentica” dell’essere-nel-mondo, ma anche la forma più ricca di
conoscenza di sé e degl’altri.
   Di qui la particolare collocazione di quest’opera nel contesto di tutti i
lavori di Binswanger.  Se altrove egli è mosso quasi esclusivamente da
interessi psichiatrici (propiziare una nuova conoscenza del “paziente”
illuminandone dall’interno e attraverso un metodo adatto, lo specifico
“progetto di mondo”), se altrove quindi egli si volge a studiare i modi
“patologici” in cui si declina la presenza umana nel mondo, nelle
Grundformen l’interesse è più universalmente antropologico e si precisa
nello studio dei modi fondamentali di essere-nel-mondo (il mondo dell’amore
duale, il mondo della pluralità, il mondo della singolarità) che sono propri
di ogni uomo, quindi anche dell’uomo “normale” o “medio”

L’incontro

   Dire che l’individuo ha il suo mondo è dire che l’individualità si
trascende,o, meglio, che si apre.  Non vi è un Sein senza il suo “da”, un
essere senza il suo “ci”.  E’ questo “ci” che apre la spazialità e rende
possibile un “qui” e un “là”.  L’essente reca quindi nel suo essere più vero
il carattere dell’essere-aperto.  Il “ci” indica questa apertura ontologica.
In altre parole: il Dasein ( sinonimo sempre di Dasein umano ovvero
essere-nel-mondo. ndr) è la propria apertura.  Ma mentre per Heidegger
l’essente è aperto in direzione del mondo solo in vista di se stesso (in
vista del mio, tuo, suo, esser-ci) tale dischiusura del Dasein è, per
binswanger, in vista del NOI (il noi duale, il noi di te e di me)

   “Il “da” del Dasein in quanto Dasein amante, non indica quella apertura
in forza della quale esso, in quanto mio, è “là” in vista di se stesso, ma
quella apertura in forza della quale il Dasein, in quanto duale, è “là” in
vista di noi, di me e di te, dell'”un l’altro”.  L’essere-se-stesso
dell’amore, la sua ipseità, non è un’io, ma un noi”

   Il Dasein, dunque, è apertura, ma solo apertura verso il “noi” dell’amore
duale.  E’ questo il principio informativo di tutta la concezione
binswangeriana dell’amore e quindi la direttrice ontologica per la
comprensione di tutte le Grundformen.
   Questa apertura ontologica al “noi” duale, viene chiamata da Binswanger
“INCONTRO” (Begennung) e rappresenta la precondizione ontologica della
possibilità di OGNI incontro amoroso.  L’incontro amoroso di me e di te è
possibile solo perchè il Dasein è già contrassegnato come “noi” e il
“nostro” incontro, QUESTO incontro, non è uno dei tanti “giochi che il
Dasein  conduce con se stesso”.  L’amore diventa così un momento strutturale
della concezione dell’esser-ci, della presenza.  E in quanto strutturale,
esso è pure un momento ORIGINARIO del Dasein, il che significa che non può
essere dedotto da null’altro.
   Il Dasein è quindi “io e tu”, dove la congiunzione “e” perde la sua
usuale funzione additiva, poichè il NOI dell’amore duale non è somma di
fattori, ma semplicemente unità, totalità e pienezza del Dasein, in quanto
duale.  Ciò che nell’incontro originario viene “incontrato” è il Dasein
stesso, nel pieno possessodi tutte le sue possibilità.  Il Dasein è già un
“noi” anche se ancora indefinito e velato.  Esso è, per così dire,
nostalgia, brama, tensione ontologica verso il “noi” dell’amore.

La spazialità dell’essere-insieme-nell’amore.

   Il “da” del Dasein, dunque, inteso come l’ontologico e antropologico
“luogo” dell’esser-ci, indica anche il vero orizzonte spaziale di ogni
dualità nell’amore.  Binswanger trova la migliore formulazione di questo
spazio dell’amore in un bel verso di Rilke: “Solo dove sei tu, là sorge un
luogo”.
   Questo “luogo” non implica alcune determinazione geografica, non si
colloca entro lo spazio tridimensionale, definito da vicinanze, lontananze e
movimenti.  Mentre il principio che regola la spazialità nel mondo fisico
delle cose si riassume nell’espressione: “Togliti, che mi ci metto io”,  per
cui ad ogni conquista di spazio da una parte corrisponde sempre una perdita
di spazio dall’altra, nella dualità dell’amore, la spazialità è retta da
un’altro principio: “Dove sono io, là sei anche tu”, e viceversa: “Dove sei
tu, là sono anch’io”  Possiamo dire quindi che gli amanti sono a casa
ovunque e in nessun luogo.
   Questo tipo di spazialità, non deducibile dalla res extensa cartesiana,
che gli amanti si concedono reciprocamente e che allo stesso tempo essi
generano, è la loro “patria”.  In questo spazio non v’è direzione, movimento
finalizzato, situazione.  Se un movimento esiste entro lo spazio dell’amore
si tratta piuttosto di un’infinito “dilatarsi, approfondirsi e innalzarsi
del Dasein”.  Il Dasein, in quanto amore, si “muove” in queste tre direzioni
primitive (cioè non intenzionali) ALLO STESSO TEMPO, quindi precede la
tripartizione teoretica nei “fenomeni fisici” (o atti intenzionali) del
pensare, sentire, volere.
“Chi quindi tratta dell’amore sotto il titolo di “sentimento” o di
“affetto”, non sa in verità che cosa sia l’amore.  Esso è allo stesso tempo
idea, sentimento, volontà”.

   Le tre vere dimensioni dello spazio amoroso sono “un’ampiezza sconfinata,
una profondità senza fondo, una pienezza inesauribile”.  E mentre questo ci
rivela il carattere dinamico dell’amore, sottolinea pure un’altro tratto
essenziale: LA  LEGGEREZZA, in forza della quale il Dasein in quanto amante,
si sottrae alla pesantezza terrestre, si eleva ad altezze inattingibili al
mondo della “Cura”.  Dire “leggerezza” significa indicare il carattere di
NON-PROBLEMATICITA’ DELL’AMORE, ché problematicità implica sempre un
indagare, un domandare attorno a qualcosa, mentre l’amore è solo un “osare”,
e non già un osare “qualcosa”, ma un puro e infinito osare.
   L’unica legge spaziale cui ubbidisce l’amore è quella
dell’AUTOACCRESCIMENTO, inteso come prodotto di una reciproca generazione:
più io dò a te, più io possiedo.
   Di qui il primato fenomenologico dell’amore sul mondo della “Cura”.  Che
amore e “Cura” stiano in un rapporto dialettico non si fonda sul fatto che,
in fondo,  anche l’amore è “Cura”, ma sul fatto che il Dasein, nella sua
forma antropologica di essere-uomo, è sempre, come insegna Heidegger, un
“essere-per-la-propria-fine”.  Ma ciò che Heidegger non ha insegnato è che
il Dasein anche in quanto essere-uomo, non si risolve interamente nel suo
“essere-per-la-propri-fine”, il che significa che esso non si comprende
soltanto sulla base della sua “fatticità”, ma anche e soprattutto sulla base
del suo essere-per-l’amore.

La temporalità dell’essere-insieme-nell’amore.

   Come Binswanger parla della SOVRA-SPAZIALITA’ dell’amore, così parla
della sua sovra-temporalità.  L’espressione che meglio definisce la
dimensione temporale è quella di “durata etena” (ewige Dauer), di “eternità”
(non di tempo eterno!”…presso Dio è l’eternità, presso il diavolo,
nell’inferno, è il tempo eterno” diceva già A. Silesio).  All’infinità dello
spazio dell’amore (non inteso come somma di luoghi), corrisponde l’infinità
del tempo dell’amore (non intesa come somma di momenti).  Alla
sovra-mondanità della “patria” corrisponde “l’istante eterno” dell’amore, un
istante nel quale cadono le antinomie di presente, futuro, passato.  La
ragione di ciò sta nel fatto che la temporalità dell’amore non “sgorga”
dalla finitezza del Dasein, in quanto mio, tuo, suo, ma dall’eternità del
Dasein stesso in quanto NOSTRO, in quanto “eterno noi”.  Come la “patria”,
così anche l’istante eterno appartiene aprioristicamente ed essenzialmente
alla struttura dell’essere-insieme-nell’amore.

Dualità e Ipseità

   Dualità nell’amore non significa abbandono o perdita del mio Sé.  La
possibilità di un mio e di un tuo SE’ nel NOI dell’amore, va vista nella
concezione binswangeriana dell’amore come dono (accolto) di te a me, e come
dono (accolto) di me a te.
   Il fatto stesso che tu mi accogli, significa che tu mi riconosci come un
SE?.  Possiamo parlare quindi di una ipseità “donata”.  E’ chiaro, quindi
che se l’amore è essenzialmente dono, io non potrò mai possedermi o
riconoscermi come ipseità attraverso un violento sforzo di conquista di me
stesso, ma solo nella libertà della donazione di me e nel ricevermi come
dono da te.  Per questa ipseità “donata”, Binswanger usa paradossalmente la
parola “Einsamkeit” (solitudine) e “einsam” (solo), termini che non hanno
nulla a che fare con “isolamento”.
….”Solo” (cioè veramente me stesso), io posso esserlo unicamente nella
dualità di te e di me, è quindi un tratto essenziale e immanente della
comunione nella dualità.  Così, posso essere “solo” anche in tua presenza,
nella misura in cui io sono insieme a te nell’amore.  Solo tu in quanto
amato “mi puoi porre in evidenza”, “mi puoi far valere” in quanto ipseità.
Senza la possibilità della “solitudine” io non potrei essere me stesso.
L’amore in sé, quindi ontologicamente e fenomenologicamente, E’ questo
movimento dialettico “solo-insieme”, ipseità-dualità, ma non in senso
ritmico, cioè come momenti opponentesisi di isolamento e di coesistenza.
   Moto dialettico va inteso, qui, come autoaccrescimento dell’amore : più
io mi do a te, più io mi possiedo; più tu ti dai a me, più ti possiedi.
Nell’amore, quindi, io posso essere  me stesso e  tu tu puoi essere te
stessa senza che cessiamo di essere un NOI.  “Solitudine”, non significa un
mio allontanarmi da te e un chiudermi di fronte a te, ma, al contrario, un
rivelarmi a me stesso e un divenir trasparente a me stesso nel mio donarmi a
te e nel mio venir accolto come dono da te, cioè restituito come dono a me
stesso.  L’amore è questo equilibrio perfetto ed armonico di solitudine e di
“insieme”, di ipseità e di dualità, di donare e di ricevere.  Solo così
l’amore diventa produttivo.  Dove quest’equilibrio viene distrutto, abbiamo,
da una parte, il don Giovanni, l’uomo essenzialmente improduttivo, senza
patria ed eternità, irredento in tante “dualità” puramente numeriche;
dall’altra, il “solitario”, eroico o rassegnato, nostalgico o arrabbiato,
irredento anch’egli nella sua “monade senza finestre”.
   Da tutto ciò appare evidente che l’esaltazione amorosa, in opposizione di
ebrezza orgiastica o di oblio mistico, non significa mai smisuratezza,
dispersione, dimenticanza di sé, ma misura immanente, norma liberamente
accolta e strutturata appunto nella dualità.  Concedendosi l’un l’altro lo
spazio infinito dell’amore, gli amanti si esperimentano l’un l’altro come
norma reciproca e produttiva, ché la dualità è sempre forgiatrice di me e di
te, non come confine oppressivo e limitante, non come resistenza.  Tu sei la
mia norma e nell’accoglierti io mi ritrovo interamente, mi formo, mi forgio,
mi rivelo a me e a te.  La mia nostalgia di risolvermi interamente in te, di
sciogliermi in te, trova il suo “limite” nella stessa patria dell’amore,
“nella quale” IO NON POSSO ESSERE SENZA DI TE.  Se questa tua presenza mi
“fa da sponda”, essa mi consolida allo stesso tempo.  Accogliendo la tua
presenza come dono, io vengo continuamente rimandato al mio SE’; non mi
perdo ne mi disperdo, ma mi ritrovo.  E quanto più io ti amo, quanto più
“amorosamente” io esperimento questa limitazione, tanto più cresco sullo
sfondo di te.

Amore e morte

   Il primato ontologico dell’amore “che dura” rispetto alla vita che passa,
ha come conseguenza che il “luogo” ontologico della morte viene radicalmente
spostato, cioè non è più quello che esso occupa all’interno della struttura
della CURA.  La morte, nel senso di “essere per la propria fine”, non sta
più, in quanto “pungolo” esistenziale dominante tutta la struttura, al primo
posto.  Essere-nel-mondo nel modo dell’amore duale significa accogliere la
morte non per sentirsi stimolato a conquistare la propria ipseità
nell’azione (la heideggeriana decisione pre-corrente), cioè ad accogliere
l’istantaneità della situazione come destino, ma per appartenersi l’un
l’altro ancor più durevolmente, cioè “eternamente”
   Se l’amore non conosce la morte non è per una specie di apatia o
atarassia, per fede religiosa in un’aldilà o per una visione romantica della
morte stessa, ma perchè essendo sganciato da ogni determinazione temporale,
esso è certo della propria durata.  Come l’amore non spera nulla, così non
teme nulla, essendo esso il superamento dell’antinomia timore-speranza (solo
l’amore-passione spera, dice Binswanger)
   Non si dimentichi che l’incontro amoroso è incontro del Dasein con se
stesso in tutta la sua interezza, mentre la morte non è che una
specificazione, una possibilità della CURA, “Il noi dell’amore è così
globalmente “essente” che ogni singola specificazione (felicità, dolore,
morte) perde il suo senso e ciò che CI riemie è solo l’amore in quanto
tale”.  Il potere eternizzante dell’amore elimina quindi anche l’antitesi
presente-assente: io posso morire solo come individuo, non già come il Tu di
un’Io.  Nonostante la morte di uno dei due amanti, la dualità rimane intatta
poichè la fede nel “nostro” amore, e quindi la sua durata, non vengono
colpite.
   Non possiamo comprendere questo discorso se non alla luce di quella
“immaginatio” cui già abbiamo accennato, e che è realtà ben diversa dalla
fantasia o dalla divagazione.  L’immaginazione cui Binswanger continuamente
si appella nella sua descrizione fenomenologica dell’amore è il modo più
prescientifico (si veda a questo proposito post “La rimozione dell’istinto”
ndr) e tuttavia più adeguato di “comprendere” il Dasein amante, è il
correlativo gnoseologico di quell'”Uberschwang” (esaltazione) che è il modus
amoris. Nell’amore “immaginante” non vi è distinzione tra “oggetto reale”
(la persona amata) e la sua fisionomia, la sua figura, quasi che la morte,
privandomi dell’oggetto del mio amore, non mi lasci altro che il ricordo dei
suoi tratti fisionomici, e, di conseguenza, immortalità dell’amore non
significa altro che “ricordo imperituro”.
   Ciò che la “immaginatio” immagina non sono dettagli, specificazioni della
persona amata, ma lo stesso imperituro Dasein in quanto dualità di me e di
te.  In altre parole; il tu che incontro nell’amore non è solo questo Tu
perituro, ma il Tu stesso del Dasein (Duhaftigkeit).  La morte non fa che
cancellare dalla “vita” questo Tu, non il Tu del Dasein che è eterno. (Non
piangere perchè è morto, rallegrati perchè è esistito. ndr)  La morte dunque
non trasforma più nulla: nell’incontro amoroso io mi sono già costituito in
un Tu eterno per te, e tu in un Tu eterno per me.  Ecco perchè anche dopo la
morte fidica di uno dei due amanti continua tra loro quella “communio” che,
a differenza di ogni “communicatio” (che è sempre trasmissione di contenuti)
si caratterizza sempre e solo come “a-storico silenzio”.  La morte
dell’amato non significa la morte dell’amore.  Solo in questo senso si può
parlare di fedeltà tra gli amanti, di una fedeltà che dura davvero al di là
della morte; è ciò che Binswanger chiama “il fenomeno erotico della fedeltà”
   La vera morte dell’amore è il suo storicizzarsi in una situazione. Qui
esso perde la sua eternità e la sua intimità che gli sono propri.  E l’amore
si storicizza  in una situazione in vari modi: infatuazione romantica (lIo
si immadesima nel Tu che sta di fronte e in esso si perde: è un donare senza
ricevere); il commercio sessuale, inteso come un do ut des (l’Io è legato in
un rapporto, non fuso col Tu, in funzione del piacere e della voluttà);
misticismo amoroso (l’oggetto amoroso non è più colto in un superamento tra
soggetto amante e oggetto amato)
   In tutti questi casi, il linguaggio abbonda: esso deve sedurre,
suggestionare; insomma, è anch’esso rivolto ad uno scopo come in ogni altro
rapporto mondano. Lo spazio e il tempo giocano ruoli importanti. Manca la
fede nel “noi”. E’ qui che l’amore si tramuta spesso in odio.  E’ qui che
l’amante viene avvilito a strumento, idealizzato o sentito come forza
limitante, ed invece di essere un rappresentante del Tu universale e
concreto, non rappresenta che una ” mia unilaterale esperienza” Qui l’amore
soccombe in un destino, ma non in quanto amore, bensì in quanto “Cura”.

Il linguaggio dell’amore

   Nell'”essere-insieme-nell’amore”, il Dasein incontra se stesso (“gioca
con se stesso”) nella sua totalità e nella sua pienezza.  Non ci
meraviglieremo quindi se Binswanger afferma che l’unico linguaggio che
compete all’amore è il silenzio.  Che cos’è infatti il linguaggio ?  Il
linguaggio è sempre un medium, un vestito del pensiero, specificazione,
dettaglio, scelta.  Esso è volto a dimostrare, persuadere, difendere,
accusare.
Esso articola, specifica, precisa.

   “Il linguaggio – dice Binswanger – non è luce, ma rischiaramento… La
dualità nell’amore non abbisogna di alcun rischiaramento, poichè, in sé e
per sé, è già essa stessa luce. Essa non ha bisogno di alcuna dimostrazione,
ne può in alcun modo essere dimostrata.  Essa è Dasein interamente svelato,
e non ha bisogno di essere rivestito, come appunto fa il linguaggio…”

   E altrove :

   “La dualità nell’amore è pura esaltazione, pienezza inarticolata,
indeterminata, indivisa, quindi ineffabilità, immobilità silenziosa, senza
quasi respiro, un’immobilità che in nessun modo significa negazione o
privazione, bensì il supremo e più positivo, anche se muto, compimento di
tutto il Dasein”

   L’amore non è ricerca di una verità, ma è “verità” esso stesso, quindi,
anche se indifeso contro al giudizio, è, nel suo fondo, inattaccabile.

L’amore è trasparenza immediata, rivelazione diretta del Dasein a se stesso,
evidenza, quindi indimostrabile.  Esso non può essere “detto”, ma solo
vissuto,.  Ogni linguaggio, dice Binswanger, trasforma il Tu dell’amore
nell’accusativo “lui”, per cui l’ineffabile dualità di me e di te si spacca
nel solito fatale dualismo di oggetto e oggetto.
   Non imprigionabile nella dimensione spaziali e temporali, l’amore è un
puro “venirsi incontro”, un puro e muto linguaggio da cuore a cuore che non
abbisogna del medium della comunicazione verbale a suo sostegno e quale suo
interprete, perchè esso è sincerità totale.  In quanto “verità”,  l’amore
non è neppure collocabile in un quadro etico, non ha quindi bisogno di
apologie : esso non è un dovere da compiere, né un fine da perseguire, né un
valore da difendere.  L’amore è, insomma, “docta ignorantia”.
“L’immotivazione dell’amore, che alla ragione appare come irragionevolezza,
è proprio il suo fondo, la sua “ragione” e la sua “giustificazione”
   Parlando di “muto linguaggio da cuore a cuore”, intendiamo sottolineare
un non piccolo merito dell’antropologia di Binswanger.  Egli ha recuperato
alla sua meditazione sull’uomo il valore del “cuore”, un valore del tutto
assente in quel MITSEIN heideggeriano che lo stesso Binswanger chiama
“neutrale”, appunto per la mancanza in esso di un Tu amante.  Egli descrive
la “patria” dell’amore come “la patria del cuore”.  Certo, qui il concetto
di “cuore” non è solo quello che ricorre presso Agostino e Pascal, cioè idea
comprensiva di tutto ciò che nell’uomo vi è di più centrale, di più sorgivo,
di più prescientifico e indefinibile, né è semplicemente quello del parlare
comune.
   Per Binswanger, il “cuore” non sta mai ad indicare una proprietà o una
funzione dell’uomo, né una sua singola azione, né un rapporto mondano, ma
allude sempre a un modo fondamentale di essere-uomo, e precisamente esprime
l’apertura del Dasein al “noi” della dualità amante.

   “Nell’essere-insieme-nell’amore il Dasein si scopre come “cuore” e il
“da” del Dasein (il “ci” dell’esser-ci) si dischiude come la patria del
cuore” Lo stesso incontro amoroso viene descritto come un “venir dal cuore”
e un “andare al cuore”.

   Siccome tuttavia essere-uomo non è solo amore, ma anche CURA (in forza di
quel rapporto dialettico tra amore e CURA che Binswanger chiama sistole e
diastole dell’essere-nel-mondo), ad ogni contemplazione silenziosa
dell’amato è immanente il bisogno di darsi una forma esterna.  Ecco perchè
il Tu della dualità amante tende a diventare Tu espresso, cioè linguaggio.
   Il linguaggio che l’amore sopporta come il più capace di coglierne e di
convogliarne l’eidos, è quello meno specificante e più allusivo, il
linguaggio della musica e della poesia.  Se nelle GRUNDFORMEN Binswanger
cede spesso e volentieri la parola ai poeti non è solo perchè essi dicono
meglio le cose, ma perchè la forza dell’immaginazione poetica è ciò che si
“commisura” meglio alla sovratemporalità e alla sovraspazialità dell’amore.
Se quindi certe pagine delle GRUNDFORMEN possono avere l’andamento un po’
disarticolato di un’ontologia dell’amore, Binswanger ci avverte che in ogni
lirica autenticamente amorosa si cela un frammento di un’ONTOLOGIA
DELL’AMORE.
   Certo, poesia e musica rompono anch’esse quel “sacro silenzio” che è il
vero linguaggio dell’amore, ma a quello si avvicinano perchè non specificano
nulla, alludono ma non significano.

   “La loro “patria” ontologica è nella trascendenza esaltante della pura
“immaginatio”. Solo esse possono “alludere alla totalità del Dasein”
   “Esse sono trascendentale “immaginatio”, quindi non finalizzata, non
problematica, prescindente da ogni individuazione, sgorgante dalla totalità
dell’essere e volta alla totalità dell’essere”

   Con le belle parole di P. Valery, Binswanger ama chiamare musica e poesia
“les enfants de mon silence”
   Ma anche la quotidianità conosce il lirismo del linguaggio amoroso, sia
pure non così eletto come quello dei poeti.  Questo dialogo tra amanti è
“sacro” perchè ex corde sonat e purché rientri, poi, in quell’immobilità
silenziosa del cuore da cui proviene.  In questo dialogo, gli amanti
esperimentano la NOVITA’ NELLA RIPETIZIONE : “Non esiste nessun altro modo
di essere in cui la ripetizione e novità siano una cosa sola come
nell’essere-insieme-nell’amore”
   La forma dell’amore è ogni volta nuova, e ciò denuncia la sua
sovratemporalità.  Il dialogo tra amanti, in quanto forma dell’amore, è
senza un tema specifico e senza uno scopo preciso (non è socratico,
sofistico, politico, economoco…).  Sua caratteristica è quella autenticità
che viene dalla sincerità del cuore, e l’atmosfera che esso sa creare.
Strttamente parlando, esso non ha contenuti : non ciò che tu dici conta, ma
il fatto che sei tu a dirlo!
   Ma nel Tu divenuto parola espressa, il dialogo non si apre solo al mondo
poetico (nel quale il tema è sempre e solo il NOSTRO AMORE) ma anche al
mondo della PREOCCUPAZIONE.  E’ in quest’orizzonte che l’amore si fa
“storia”, destino mondano.  L’essere-insieme-nell’amore esce dall’istante
eterno e rientra nel tempo e nello spazio della CURA.  Ora l’amore si
tematizza, si esplora, si interpreta, s’interroga, si preoccupa.  Ora
passato e futuro gravano sul presente.  Ma anche a questo dialogo inerisce
pur sempre un po’ di quella “esaltazione”, di quella “immaginatio” che
definiscono l’amore, poichè in esse si inquadra e si fonda.  L’amore diventa
così “opera”, realtà forgiante (figlio e famiglia).  E’ questo, secondo
Binswanger, il vero “luogo” del matrimonio, che egli concepisce come un
“lungo dialogo amoroso” e che egli giustifica come il mezzo più efficace per
assicurare all’amore “la forma più duratura”

( continua con…
L’essere-insieme-nell’amicizia)

Il “DASEIN” intelligenteultima modifica: 2010-06-07T16:10:39+02:00da allan11
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