La filosofia contemporanea

 di Roberto Persico

La filosofia moderna cominciò con il de omnibus dubitandum est di Descartes, con il dubbio, ma non con il dubbio come autocontrollo della mente umana per guardarsi dagli inganni del pensiero e dalle illusioni dei sensi, non come scetticismo verso le morali e i pregiudizi degli uomini e dei tempi, e nemmeno come un metodo critico di ricerca scientifica e di speculazione filosofica. Il dubbio cartesiano ha una portata tanto più vasta ed è troppo fondamentale nel suo intento per essere determinato da tali contenuti concreti. Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumazein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è. Descartes fu il primo a concettualizzare questo dubitare moderno, che dopo di lui divenne il motore evidente e dato per scontato che ha mosso tutto il pensiero, l’asse invisibile sul quale si è incentrato ogni pensare. Proprio come da Platone e Aristotele fino all’età moderna la filosofia è stata l’articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio. […]

         La filosofia cartesiana è pervasa da due incubi che in un certo senso diventarono gli incubi dell’età moderna. Questi incubi sono molto semplici e noti. Uno riguarda la realtà, la realtà del mondo come quella della vita umana, che è oggetto di dubbio; se non ci si può fidare dei sensi né del senso comune né della ragione, può darsi allora che tutto ciò che prendiamo per realtà sia solo un sogno. L’altro riguarda la situazione umana generale come fu rivelata dalle nuove scoperte, e l’impossibilità dell’uomo di fidarsi dei suoi sensi e della sua ragione; in tali circostanze sembra possibile che un Dio maligno, un Dieu trompeur, inganni volontariamente e spietatamente l’uomo, così che Dio non è più l’ordinatore dell’universo. Il diabolico trucco di questo spirito maligno consisterebbe nell’aver creato una creatura che alberga in sé una nozione di verità, ma solo per conferirle facoltà tali da non riuscire mai, attraverso di esse, a raggiungere alcuna verità e a esser certa di nulla. […]

         Il famoso cogito ergo sum non scaturì per Descartes da una qualche certezza immediata del pensiero come tale, ma fu una semplice generalizzazione del dubito ergo sum. In altre parole, dalla mera certezza logica che quando dubito di qualcosa io rimango consapevole di un processo di dubbio che si svolge nella mia coscienza, Descartes concluse che i processi che si svolgono nella mente dell’uomo hanno una loro propria certezza. […] La ragione cartesiana è interamente basata “sull’assunto implicito che la mente può conoscere solo ciò che essa stessa ha prodotto e trattiene in un certo senso in se stessa”1. Il suo ideale più alto deve essere quindi la conoscenza matematica come l’intende l’età moderna, non cioè la conoscenza di forme ideali date fuori dalla mente, ma di forme prodotte da una mente che in questo caso non ha nemmeno bisogno dello stimolo prodotto sui sensi da oggetti diversi dai sensi stessi. La ragione, in Descartes come in Hobbes, diventa la facoltà di dedurre e concludere; è il gioco della mente con se stessa, che si verifica quando la mente è tagliata fuori dalla realtà e “sente” solo se stessa. I risultati di questo gioco sono “verità” obbligatorie perché si suppone che la mente di un uomo non differisca da quella di un altro: privati di quel senso “comune” che adegua i cinque sensi animali dell’uomo al mondo comune a tutti gli uomini gli esseri umani non sono più che animali capaci di ragionare, di “calcolare le conseguenze”.

Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani 1997 (3),  pp. 202-10, passim

         Un’ideologia è letteralmente quel che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa «legge» dell’esposizione logica della sua «idea». Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua «idea».

         Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l’uno all’altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica di un’«idea». Tuttavia, l’unico movimento possibile nel regno della logica è la deduzione da una premessa. Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica.[…]

         Il metodo usato dai dittatori totalitari per trasformare le rispettive ideologie in armi con cui costringere ciascuno dei sudditi a mettersi al passo col movimento del terrore era poco appariscente. L’uno si vantava della «freddezza glaciale del ragionamento» (Hitler), l’altro della «inesorabilità della sua dialettica» (Stalin), e spingevano le implicazioni agli estremi della coerenza logica: una «classe in via di estinzione» consisteva di gente condannata a morte; le razze «inadatte a vivere» venivano sterminate. Chi ammetteva che esistevano «classi in via di estinzione» senza trarre da tale fatto la conseguenza dell’uccisione dei loro membri, o riconosceva che il diritto alla vita era legato alla razza senza trarre la conseguenza dell’eliminazione delle «razze inadatte» era semplicemente o uno stupido o un codardo. L’argomento più persuasivo a tale riguardo, e caro a Hitler come a Stalin, era: non si può dire A senza dire B e C e così via, sino alla fine dell’alfabeto.

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo,

Edizioni di Comunità 1997 (2),  pp. 641-7, passim

         L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l’immaginazione con la scienza. Benché alieno dalla matematica, Bacone ha saputo cogliere felicemente l’animus della scienza successiva: l’intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. La tecnica è l’essenza di questo sapere. Esso non tende a concetti e a immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c’è altro che tenga. Privo di riguardi verso se stesso, l’illuminismo ha bruciato anche l’ultimo resto della propria autocoscienza. Solo il pensiero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro da infrangere i miti. Potere e conoscenza sono sinonimi. La sterile felicità di conoscere è lasciva per Bacone come per Lutero. Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l’operation, il procedimento efficace. Non ci dev’essere alcun mistero, ma nemmeno il desiderio della sua rivelazione.

         Lungo l’itinerario verso la nuova scienza gli uomini rinunciano al significato. Essi sostituiscono il concetto con la formula e la causa con la regola e la probabilità. La causa è stata l’ultimo concetto filosofico con cui la critica scientifica ha fatto i conti, poiché era la sola delle vecchie idee che essa si trovasse ancora di fronte, l’ultima secolarizzazione del principio creatore.

         Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare.

         L’illuminismo riconosce a priori, come essere ed accadere, solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il sistema, da cui si deduce tutto e ogni cosa. In ciò non si distinguono le sue versioni razionalistica ed empiristica. Il postulato baconiano dell’una scientia universalis è altrettanto ostile a ciò che non si può collegare quanto la mathesis universalis leibniziana al salto. La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento, la storia al fatto, le cose a materia. La logica formale è stata la grande scuola dell’unificazione. Essa offriva agli illuministi lo schema della calcolabilità dell’universo: il numero divenne il canone dell’illuminismo. Tutto ciò che non si risolve in numeri diventa, per l’illuminismo, apparenza. L’illuminismo è totalitario.

Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo,

Einaudi 1982 (7),  pp. 11-15, passim

         Lungi dall’opporsi, in nome della permanenza dei caratteri razziali o della loro fatale degradazione, alla possibilità di un sostanziale miglioramento dell’umanità, Hitler esclude la categoria stessa dell’impossibile. Dall’idea di razza non deduce la forza del determinismo, bensì la determinazione del Nemico e la dimensione cosmica della guerra che gli dichiara. Non ci sono limiti oggettivi al fattibile, ci sono soltanto resistenze soggettive, e dunque eliminabili. Nessun ostacolo che non dissimuli un modo di agire, nessuna deviazione fra l’obiettivo auspicato e la realizzazione che non sia provocata da un sabotatore. La non conformità di ciò che avviene rispetto ai fini perseguiti o ai piani architettati non è dovuta all’esistenza di altri, ma alla malevolenza dell’Altro. L’avversità deriva sempre da un Avversario. Lo spazio pubblico è uno spazio di battaglia. Nel decretare un ‘loro o noi’ di carattere planetario, il criminale nazista manifesta il suo rifiuto, non della condizione di uomo libero, ma dei limiti inerenti la condizione umana. […]

         Tra lo Stato delle SS e il regime sovietico vi sono certamente numerose differenze. Resta, tuttavia, questo nucleo ontologico fondamentale: nei due sistemi i fenomeni sociali sono concepiti come processi e i modi di essere come forze in movimento; vediamo così dispiegarsi, al di là dell’antagonismo dei valori, una stessa concezione del politico come campo dell’onnipotenza, una stessa vertiginosa assenza di scrupoli nei confronti del dato, fondata sul medesimo volontarismo, vale a dire sulla stessa convinzione filosofica e paranoica che nulla esista indipendentemente dal conflitto delle volontà. In entrambi i casi, infine non è tanto la bestialità a spingere al crimine, quanto la radicalità, cioè l’obbligo di seguire il proprio pensiero, senza esitazioni e senza scappatoie. Il pensiero totalitario liquida dunque, con il rifiuto di percepirli, la realtà quale è data e l’evento quale si verifica. Appoggiandosi sull’incrollabile certezza di una lotta mortale tra l’uomo e il nemico del genere umano, esso si emancipa dalla realtà che percepiamo con i nostri cinque sensi e «insiste su una realtà ‘più vera’, che è nascosta dietro le cose percettibili, dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un sesto senso».

         A questo sesto senso e a questo pensiero, affrancato da ogni esperienza dal suo stesso potere di spiegare tutto, Hannah Arendt dà il nome di ideologia. L’ideologia, secondo Arendt, non è la menzogna delle apparenze, ma piuttosto il sospetto gettato sulle apparenze e la sistematica presentazione della realtà che abbiamo sotto gli occhi come schermo superficiale e ingannatore. E’ il riassorbimento del ‘c’è’ che non si può padroneggiare, dell’indeterminatezza del mondo e della perturbante diversità degli eventi in un dramma storico a due personaggi, al tempo stesso sottratto allo sguardo e offerto al sapere. Ciò che rientra nell’ideologia è, per Arendt, la negazione dell’aleatorio, il rifiuto di rendere giustizia  negli affari umani all’imprevedibilità e a quelle forme di spossessamento costituite dall’evento, dalla coincidenza, dall’incontro con qualcosa di già dato; è, in una parola, la soppressione dell’idea stessa di avventura operata dal concetto di Storia. […]

 

         Non più una immensa confusione, ma un gigantesco battaglione; non più una folla cacofonica, ma una struttura omogenea e terribilmente armoniosa; non più una moltitudine incontrollabile, ma un essere multiforme, maneggevole e disciplinato: tale appare l’umanità nella guerra totale, vale a dire nella situazione in cui ogni esistenza è convertita in energia e ogni individuo – dall’officina al fronte – è ridotto a essere soltanto un pezzo del dispositivo, una particella della volontà, una ruota della turbina. Si possono dire totalitari i movimenti politici che hanno eretto a valore supremo quest’immagine.

          A un tale sistema, i campi di concentramento forse non sono economicamente utili, ma sono ontologicamente necessari, perché, per assicurare il regno della volontà unica, bisogna al tempo stesso liquidare il Nemico dell’uomo e, nell’uomo, la spontaneità, la singolarità, l’imprevedibilità, in breve, tutto ciò che costituisce il carattere unico della persona umana. Le fabbriche della morte sono anche laboratori dell’umanità senza uomini. Riallacciandosi all’utopia radicale come alla politica estrema, mirano non solo all’annientamento fisico dell’Avversario, ma anche alla scomparsa metafisica del Multiplo nell’Uno. “Finché c’è qualcuno, l’umanità è imperfetta” proclama, quale che sia il suo colore, il socialismo concentrazionario. […]

         Nelle pagine finali della prima edizione del suo libro sulle origini del totalitarismo, apparso in Inghilterra con il titolo The burden of our time («il fardello del nostro tempo»), Hannah Arendt definisce con il termine risentimento la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno. Risentimento contro «tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza»; risentimento contro «il fatto che egli non è creatore dell’universo, né di se stesso». Spinto da questo risentimento fondamentale a «non scorgere alcun senso nel mondo quale gli si offre», l’uomo moderno «proclama apertamente che tutto è permesso e crede segretamente che tutto. sia possibile».

         Tutto è possibile: questo assioma ha rivelato la sua forza devastatrice sia nei crimini perpetrati in nome dell’umanità universale sia in quelli serviti a giustificare l’idea di umanità superiore. Traendo insegnamenti dalla catastrofe, Hannah Arendt afferma nello stesso testo che la gratitudine è la sola alternativa al nichilismo del risentimento, «una gratitudine fondamentale per le poche cose elementari che ci sono invariabilmente date, come la vita stessa, l’esistenza dell’uomo e il mondo».

Alain Finkielkraut, L’umanità perduta,

Liberal 1997, pp.73-88, 106-7 e 161-2, passim

Il totalitarismo è esclusivamente moderno perché nasce da una società in movimento; le sue radici storiche sono in quell’illuminismo settecentesco che sembra essere di esso la negazione in terminis.

Atteso che esista, e nessuno può negarlo, un divenire storico, i phiIosophes lo videro e lo descrissero come un processo evolutivo dalla barbarie alla civiltà, dalla religione e dalla poesia alla filosofia, dall’intuizione e dalla fantasia alla ragione e alla scienza.

Questo modello di una umanità in progresso, sia esso lineare o complicato da corsi e ricorsi storici, apparve così convincente e inconfutabile da confondersi con la natura stessa, anche se molti pretesero di distinguere nell’uomo e nella storia l’elemento della libertà, della creatività e della responsabilità. Apparve chiaro soprattutto che l’uomo, con le sole sue forze o magari aiutato da una provvidenza immanente, può pervenire a condizioni sempre più mature e umane, fino a poter sognare il raggiungimento, in questa terra, di una condizione perfetta, di un paradiso terrestre. L’utopismo moderno ha la propria origine nella negazione del peccato originale e della corrispondente grazia o salvezza, il totalitarismo nasce qui: dalla convinzione che chi si oppone a questo presunto processo di liberazione dell’uomo è disonesto e ignorante. Nascono allora i “reazionari” e le “destre” (i termini destra e sinistra in senso politico sono contemporanei alla Rivoluzione francese, e trovano luogo nella Convenzione Nazionale), e non è meraviglia che gli oppositori di quelle ipotesi che pretendono conformarsi al senso della Storia sostituiscano i reprobi di cristiana memoria: con una differenza, che per i nuovi reprobi l’inferno sarà qui, per lo più sotto specie di solitudine e scherno, e, nei casi estremi, di annientamento fisico e spirituale. Se è vero dunque che l’umanità è in movimento verso stadi più maturi e convenienti, emergeranno fatalmente le avanguardie che pretendono sforzare tutto e tutti verso così desiderabili traguardi: nascerà così la uniformità coatta e artificiale, pena la persecuzione, e l’uomo animale razionale verrà trasformato in animale sociale. Ciò necessariamente; finché si suppone che l’uomo abbia un’anima personale o partecipi di un’anima universale sarà chiaro che una parte di lui, la più importante, avrà un destino imprevedibile e socialmente ingovernabile.

Al totalitarismo politico, di origine illuministico-giacobina, collabora la scienza moderna, l’altro idolo di coloro che non hanno minimamente meditato sui suoi principi né sull’eterogenesi dei suoi fini.

La scienza moderna nasce con lo scopo di dominare la natura a utilità dell’uomo, Il fine conoscitivo è subordinato a quello pratico, e il modello matematico imposto alla fisica (Galileo) è il solo che possa servire, non certo il solo possibile e magari non il più desiderabile. Bacone e Cartesio sono espliciti in proposito: “sapere è potere”, “lo scopo della scienza è rendere l’uomo maitre et possesseur de la nature”, e del primo è da ricordare l’utopia della Nuova Atlantide, dove, fra le altre finezze, è ipotizzato il prolungamento indefinito della vita umana; del secondo è da ricordare il progetto di una Mathesis universalis che riduca ogni conoscenza al linguaggio del calcolo e della prevedibilità, nonché la parallela riduzione di ogni corpo a macchina. Sono questi i mezzi teorici per disporre al progresso sul piano pratico, ed è evidente che per tale nozione di progresso valgono le stesse critiche che valgono per il progressismo politico (illuministico-giacobino).

Il reazionario, infatti, è sempre antiscientifico, ed è comunque qualificabile come un irresponsabile che si oppone alle sicure conquiste dell’uomo. È vero che lo scientista non organizza campi di concentramento: ma che bisogno ne ha? La sua apparente tolleranza nasce dal fatto che egli si sente più forte, e di fatto lo è, del progressista politico impegnato nel mondo della storia e dunque sempre alle prese col “vecchio” uomo… In verità è comune allo scientista e al rivoluzionario lo schema di un mondo completamente dominato e dunque di una vita sociale integralmente artificiale e sottoposta alla coazione.

La libertà dell’uomo non è garantita né dalla politica né dalla scienza, ormai completamente schiava dell’ideale di creare un uomo nuovo, bensì dalla vita civile, ovvero da quell’humus inconsapevole, morbido, umido e in definitiva umano e religioso che protegge senza l’ideologia del conservare e inventa senza quella del distruggere, che fa apparentemente senza sapere, che sa contemplare e pregare.

 

Rodolfo Quadrelli, Capitoli morali, Milano 1979

La filosofia contemporaneaultima modifica: 2010-06-07T00:14:00+02:00da allan11
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